L’industria automobilistica tedesca ha perso 166.000 posti di lavoro dal 2020 passando da 900.000 addetti a 734.000 ed entro la fine del 2025 è prevista un’ulteriore diminuzione di circa 70.000 occupati. Oltre al colosso Volkswagen hanno annunciato licenziamenti nei loro stabilimenti Audi, Nissan, Ford, Bosch, Michelin. Dei 12,6 milioni di occupati nell’automotive in Europa quanti saranno i tedeschi che avvertono la drastica riduzione del loro tenore di vita? Due, tre, quattro milioni?
Certamente hanno influito sulla crisi dell’automotive anche la flessione della domanda mondiale, l’aumento dei costi energetici (la guerra in Ucraina ha chiuso i rapporti con la Russia che non fornisce più gas a buon mercato) e l’aggressiva concorrenza cinese nei veicoli elettrici, ma la scelta di puntare tutto sull’energia elettrica è stata una decisione politica.
A parte Toyota, Volkswagen è il secondo gruppo automobilistico più grande al mondo per numero di veicoli venduti. Un primato non raggiunto per caso perché la casa automobilistica di Wolfsburg storicamente produce veicoli di elevate prestazioni con alta tecnologia e di grande affidabilità, assimilata, sotto questo profilo, ad altri importanti marchi come Bmw, Mercedes-Benz, Audi, Porsche, Opel, Smart etc.
Interconnessa all’industria automobilistica tedesca è quella italiana, in particolare il settore manifatturiero meccanico che è partner privilegiato di gran parte dell’automotive germanico.
L’eclissi dell’industria automobilistica tedesca, con pesantissime conseguenze sull’economia generale di quel Paese, ha dolorose ripercussioni anche nel nostro.
Solo uno stolto può rallegrarsi delle difficoltà economiche di Berlino che, in effetti, ha una grandissima colpa: avere assecondato le politiche, soprattutto dei Verdi e dei Socialisti, favorevoli al Green Deal, un insieme di iniziative proposte dalla Commissione europea con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050.
In pratica, i talebani del Green Deal, cocciutamente votati a rimuovere l’anidride carbonica (Co2) dall’atmosfera, hanno dichiarato guerra ai motori endotermici (le vetture a benzina o diesel) puntando tutto sull’elettrico.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una gigantesca crisi che sta distruggendo uno dei settori di cui l’Europa ha sempre avuto il primato mondiale e che, al contrario, avvantaggia la Cina che controlla oltre il 70 per cento del mercato delle terre rare, elementi chimici indispensabili per produrre le batterie delle vetture elettriche. Un ineguagliabile harakiri, non c’è che dire.
È incomprensibile come gran parte della classe politica tedesca si sia fatta trascinare in un così tragico errore. L’instabilità economica genera tensioni sociali che portano spesso al mutamento degli assetti politici.
L’ha certamente compreso il cancelliere Friedrich Merz che con il nostro primo ministro, Giorgia Meloni, ha chiesto all’Unione Europea una revisione del Green Deal e del divieto dei motori a combustione a partire dal 2035.
I due Leader non hanno usato mezze parole nella lettera inviata alla Commissione europea perché hanno precisato che «il Green Deal, almeno nella sua applicazione attuale, non è sostenibile, né economicamente né socialmente».
Finalmente una presa di posizione che non lascia adito ad interpretazioni o ambigui distinguo. Il Green Deal, figlio dell’Agenda 2030, è una strategia che ha già provocato danni, oltre ai trasporti, a numerosi altri settori come chimico, agricoltura, edilizia, architettura, design etc.
Prima lo si blocca, prima riprende l’economia nell’intera Europa.
